Il viaggio è immersione.
Esplorazione.
Crescita.
Apertura.
Incontro.
Diversità.
Aspettativa.
Umanità.
Viaggiare equivale ad essere felici.
È il sogno della nostra vita e, piano piano, stiamo cercando di realizzarlo.
L’asino che ammicca al centro del logo, disegnato dal bravissimo Marco Abbenda, rappresenta il cammino, lento eppure caparbio. Per questo abbiamo deciso di chiamarlo Kalipè, termine che nelle zone himalayane è un augurio da rivolgere a chi si dirige verso le montagne.
Conta il come, più del dove.
Ogni passo sulla strada permette di stupirci della meraviglia che ci circonda, di “gustare” i panorami mozzafiato e i cibi, di avvicinarci alle culture e alle persone; ma sempre con ostinata accuratezza: il viaggio inizia, infatti, prima di salire su un’auto o di prendere un aereo. La pianificazione, lo studio, la curiosità sono tappe fondamentali per godere dei nuovi odori, colori ed emozioni che ci aspettano!
E il nome “The Trektrotters” vuole rimandare, come un’onomatopea, proprio allo scalpiccio degli zoccoli e a quello delle scarpe che si consumano sui sentieri delle nostre avventure.
Siamo convinti che non ci sia niente di meglio della condivisione della bellezza con più persone possibili. E, a proposito di sinergie, permetteteci di ringraziare di cuore Alessandro Tomei, che ci ha aiutato a districarci nel groviglio digitale con cui abbiamo deciso di scommettere.
Speriamo che il nostro blog, nato per gioco tra i tavoli della Dolcineria dove di solito andiamo a bere un caffè, possa esserti utile a realizzare uno dei viaggi che hai rinchiuso in un cassetto. Se sei “affetto” anche tu dalla voglia irrefrenabile di preparare lo zaino, ma non sai ancora da che parte cominciare, vuoi condividere le tue esperienze o avere consigli, sei nel posto giusto: non esitare a scriverci!
Ovunque tu stia andando, c’è un mondo intero che ti aspetta.
Segui l’invito del nostro asinello Kalipè e mettiti in marcia!
Come leggere il blog
Ehi, amico! Vogliamo che la tua visita sia snella, veloce e fruttuosa, per cui eccoti alcune dritte su come cercare quello che ti occorre in questo spazio.
Ti sarai accorto che la home è divisa in due parti: nella prima, troverai gli articoli più aggiornati del blog (racconti delle nostre avventure, attività da provare, esperienze da fare); la seconda comprende invece le “pillole di viaggio”, consigli brevi e immediati riguardanti argomenti più particolari: qui non troverai la descrizione di una città o di un paese, ma di un cibo, un’attrazione, un locale che di quella città sono tipici, ma non sempre conosciuti. Potrai commentare lasciandoci un feedback!
Per entrambe le sezioni, gli articoli più vecchi saranno conservati nell’archivio presente nel menù a tendina, distinti per Paese di interesse.
Nella sezione “itinerari”, invece, saranno inseriti alcuni viaggi già pronti; se ne stai pianificando uno, qui potresti trovare una bozza di programma da replicare o da cui prendere spunto.
Nell’ultima voce del menù sarà possibile leggere i nostri consigli (fotografici, su come preparare lo zaino, su cosa non può mancare in valigia, su quale guida procurarsi o quale romanzo leggere…).
Vorresti scoprire, infine, cosa porterebbe con sé l’asinello Kalipè dovendo affrontare un viaggio? Basterà scorrere gli articoli fino in fondo e curiosare nel suo zainetto 🙂
Ci fa molto piacere fare la tua conoscenza e ti ringraziamo per averci dedicato qualche minuto del tuo tempo. Se vuoi sapere di più su di noi, troverai la nostra presentazione in fondo alla home… potrai scriverci in qualsiasi momento e seguirci sui nostri canali social!
E ricorda: che tu sia in partenza per il Grande Nord o l’estremo Sud… kalipè!
Le balene d’Islanda
Quando arriviamo ad Húsavík, nel nord dell’Islanda, sono da poco passate le tre del pomeriggio, ma è difficile da dire. È estate e questo è il periodo del “sole di mezzanotte”: il sole, anziché tramontare, ristagna sull’orizzonte, stiracchiando le giornate.
In pratica, si perde il senso del tempo e si fa presto a scambiare quella che dovrebbe essere la sera per la mattina e viceversa.
Non aiuta di certo a scandire il giorno neanche la calma che ovatta la cittadina e i dintorni, dove i campi sono punteggiati da pecore oziose, immobili pennellate bianche che si risparmiano ogni movimento, ad eccezione di quello della mandibola, snodata in una costante ruminazione.
Abbiamo già percorso metà della Ring Road (per l’itinerario completo puoi curiosare qui), in senso antiorario, eppure l’alternarsi di campi verdi, colate laviche e masse ghiacciate non ci ha ancora stancati.
Parcheggiamo il van di fronte ad un negozietto di souvenir. Sembra essere ben fornito: dalla porta di ingresso si intravedono mensole e pareti su cui campeggiano tazze, calamite, maglioni tradizionali dalla dubbia autenticità (se non sai di cosa sto parlando devi leggere questo articolo), magliette e peluche.
È piuttosto tiepido, per gli standard locali; perlomeno il vento non soffia impetuoso ed è una conquista, considerando la ragione per la quale siamo qui.
Comunque, se la strada che taglia a metà la città è semideserta, la vita brulica alle nostre spalle: il porto è in piena attività, sono diverse le imbarcazioni in arrivo o in partenza. È uno dei crocevia più importanti dell’isola, nonché uno dei luoghi islandesi in cui la pesca è particolarmente fruttuosa: ad essere ormeggiati sono, infatti, perlopiù modesti pescherecci. Ma non solo. Accanto ai ponti ingombri di reti e lenze, ci sono scafi ben diversi: barche a vela, gommoni, traghetti; piccoli vespai in cui gli equipaggi si adoperano a slegare gomene, manovrare timoni, aiutare i passeggeri a sistemarsi da poppa a prora, tutti con lo stesso obiettivo: salpare il prima possibile per non perdere l’opportunità di avvistare i grandi cetacei.
Sì, perché Húsavík è soprannominata “capitale mondiale” del whale watching. La sua ubicazione – la baia di Skjálfandi, su cui la cittadina si affaccia, costituisce una garanzia di cibo per le balene, che dunque fanno del fiordo il loro ritrovo – e il mix di correnti calde e fredde che si mescolano fanno sì che le sortite abbiano sempre successo.
Ma noi non siamo così ottimisti (la legge di Murphy, nel nostro caso, raramente fa cilecca).
Ci incamminiamo sul molo con gli occhi che brillano (ottimisti no, ma speranzosi sì), diretti verso Náttfari, l’imbarcazione governata dai ragazzi di North Sailing che abbiamo scelto per quest’avventura.
Leggenda vuole che Náttfari (letteralmente “colui che viaggia nella notte”) fosse uno schiavo di Garðar Svavarsson, uno svedese facoltoso sposato con una donna delle Isole Ebridi. Un giorno Garðar partì per reclamare l’eredità del suocero, ma fu sorpreso da una tempesta che gli fece perdere la rotta, spingendolo molto più a nord. Quando approdò, si rese conto di essere giunto su una nuova terra. Era un’isola, cui diede il nome di Garðarshólmi, “Isola di Garðarr” (come avrai già capito, era l’Islanda). Sbarcò a Skjálfandi (sì, proprio a Húsavík), dove costruì una casetta che riparò lui e il suo seguito per tutto l’inverno. In primavera ripartì per le Ebridi e fu allora che Náttfari riuscì a fuggire. Si nascose e, quando il padrone era ormai lontano, uscì allo scoperto e si stabilì a Náttfaravík, di fronte a Húsavík, diventando il primo abitante permanente dell’Islanda (se ti interessano folklore e leggende, in particolare quelle nordiche, non puoi lasciarti sfuggire l’Atlante leggendario delle strade d’Islanda!).
Oltre al nome che porta, anche la storia della nostra barca ha qualcosa di leggendario: nacque per la pesca delle aringhe, ma venne dismessa negli anni ’90 del secolo scorso e lasciata a marcire a Reyðafjörður, nell’Islanda orientale, fino a quando non è stata rilevata, restaurata pezzo dopo pezzo e rimessa in mare con una nuova veste.
Quando siamo tutti a bordo, i ragazzi e le ragazze di North Sailing distribuiscono a ciascuno delle pesanti tute termiche che ci fanno assomigliare a tanti fagotti.
Il gruppo è numeroso, ma attento: prendiamo posto, guadagnando il parapetto, mentre ci vengono date direttive sulla sicurezza e istruzioni sulla traversata.
Il capitano, una giovane che parla con tono amichevole ma deciso, ci ricorda che vedere i cetacei non è scontato. Non siamo in un parco acquatico e dobbiamo essere consapevoli che sarà la natura, imprevedibile, a decidere per noi. Se dovessimo scorgere qualcosa, sottolinea, ci avvicineremo, ma ad una distanza tale da rispettare l’animale.
L’Islanda non è come la Norvegia, in cui, negli ultimi anni, è scoppiata una vera e propria “corsa alla balena”, scatenando una concorrenza selvaggia e spietata tra i tour che ne sponsorizzano l’avvistamento, spesso insensibili al benessere degli animali.
Qui, viceversa, si sta cercando di salvaguardare i cetacei il più possibile.
All’epoca in cui risale questo racconto – il 2022 – l’Islanda è uno dei pochi Paesi al mondo in cui è ancora praticata la caccia alle balene. Eppure si era già capito che queste avrebbero potuto costituire una fonte maggiore di introiti da vive, piuttosto che da morte. Lo scorso giugno il governo ha sospeso la pratica fino alla fine di agosto, per poi riprenderla a settembre.
Non resta che sperare in un divieto definitivo.
Il discorso del capitano, insomma, ci piace e lo condividiamo. D’altronde, anche nell’eventualità in cui non dovessimo avvistare nulla, la navigazione in sé vale la pena: siamo al largo del mar di Groenlandia, circondati dai puffin – le famose pulcinelle di mare –, a pochissima distanza dal Circolo polare artico. Chiedere altro sembrerebbe voler approfittare della fortuna.
Durante la prima mezz’ora siamo tutti concentrati sulle onde e sugli spruzzi di schiuma e due falsi allarmi tengono vive le nostre aspettative. Ma più le lancette corrono, più le speranze scemano.
Rabbrividendo, mi accoccolo un po’ di più nella tuta termica, poiché nel frattempo le temperature sono scese. Ale si è spostato sull’altro lato della barca e continua a tenere gli occhi aperti.
Uno scossone improvviso mi fa drizzare in piedi e intorno i nostri compagni di viaggio si fanno agitati: chi guarda a destra, chi a sinistra, chi sgomita. Ale si affretta verso di me, con uno sguardo che non lascia adito ad interpretazioni: «L’hai vista?». Non fa in tempo a chiedermelo, con un sorriso a trentadue denti, che di nuovo la barca accelera con un balzo in avanti. Ma questa volta sono preparata. Mi volto e ricomincio a scandagliare anche io l’orizzonte con ritrovata fiducia.
E così, in barba ai pronostici (e, per una volta, alla legge di Murphy!), ad un centinaio di metri, eccola.
Non immaginare le balene di Cape Cod, Massachusetts (USA), che saltano fuori dall’acqua in tutta la loro imponenza. In Islanda le balene azzurre sono di passaggio solo raramente. È più comune avvistare le balenottere minori o le megattere – anche loro potrebbero riservarti qualche equilibrismo, ma in minor misura –.
Se hai letto Moby Dick, di Herman Melville, o visto il film che ne è stato tratto con Gregory Peck, sono sicura che anche tu avresti avuto l’irrefrenabile istinto di urlare “Soooooffiaaaaaa”, come il capitano Achab. Beh, io l’ho fatto – complice il vento, che ha coperto quello che dicevo –. 🙂
Vedere a poca distanza lo sbuffo del respiro della megattera dallo sfiatatoio è una delle cose più emozionanti che mi siano capitate.
Ci siamo sentiti privilegiati e in fondo lo siamo stati perché la natura ha voluto farci un regalo.
Come si può spiegare la sensazione di estrema libertà che trasmette l’immagine davanti ai nostri occhi? Come si possono descrivere la tenerezza e la gioia con cui un animale di quelle dimensioni, tra l’altro sempre più a rischio a causa dell’uomo, gioca con le onde?
Scattiamo qualche foto, per provare a “fissare” quello che ci sta capitando, ma smettiamo presto: alcune cose si imprimono meglio semplicemente vivendole.
L’esemplare ci fa compagnia per un po’, soffiando e mostrandoci la coda.
Ben presto non è il solo: qualche focena e altre megattere si affacciano dalle onde, a volte molto molto vicine. Una megattera, in particolare, sale a prendere aria a pochi metri dalla Náttfari, per poi passarvi sotto. Più al largo, un branco di delfini si esibisce in saluti acrobatici. Uno spettacolo meraviglioso.
Quando si accosta un’imbarcazione più piccola, il nostro capitano decide di lasciarle spazio. Abbiamo visto abbastanza e siamo tutti assolutamente soddisfatti, non è necessario infastidire oltre i nostri amici marini.
Per rendere più dolce il rientro, però, la ciurma ci offre delle tazze bollenti colme di cioccolata calda accompagnate dalle kanelbullar, girelle alla cannella svedesi, ampiamente diffuse nell’intero nord Europa.
Torniamo sulla terra e, sorridendo, prima di rimetterci in viaggio, guardiamo l’orizzonte, verso le balene, con il cuore traboccante di gratitudine.
LO ZAINETTO DI KALIPÉ
- Libri: Moby Dick, Herman Melville
- Cappello, guanti
Cappadocia: tra storia e nobile miseria
C’era una volta in…
«Cosa hai fatto tutto questo tempo?» chiede Fat Moe a Noodles che, malinconico, risponde «sono andato a letto presto». Cosa c’entra questa citazione del film capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America, con il viaggio in Turchia? In realtà assolutamente nulla, se non per il fatto che Mehmet, guida turistica locale, abbia risposto più o meno in questo modo alla domanda di una psicologa di Manila, curiosa di sapere cosa avessero fatto gli abitanti della Cappadocia durante l’epidemia di Covid-19. «Si sono coricati presto alla sera», è stata dunque la sua risposta (cito pure Marcel Proust e non faccio torto a nessuno, visto che il dialogo tra Fat Moe e Noodles, in realtà, è un omaggio proprio alla Recherche dell’autore francese). Ma nelle parole di Mehmet non c’è nulla di poetico. Nessun alone di mistero. Non trapelano enigmi, ma solo tanta drammatica realtà: andare a dormire per non sentire la fame.
Queste affermazioni mi hanno turbato, è inutile negarlo.
E così, per un po’, durante i trasferimenti in van da un sito archeologico ad un altro, ho riflettuto, autoconvincendomi di aver male interpretato la conversazione. In fin dei conti l’inglese lo parlo male. Quindi perché avrei dovuto capire un discorso tra una filippina e un turco? Così domando a Chiara – lei sì che è anglofona – e mi conferma quello che avevo capito.
Non c’è niente da fare: noi non andiamo in vacanza; andiamo alla ricerca di drammi esistenziali che si appiccicano alla nostra vita e non se ne vanno più via. Dico sempre: «Ma in vacanza al mare (o in montagna) come fanno tutti non possiamo andare? Perché ci dobbiamo puntualmente accollare i drammi umani-ambientali-climatici-archeologici-storico-religiosi-calcistici-musicali-artistici-astronomici dell’umanità intera… perché? Perché a noi i villaggi vacanze fanno così schifo?… ». La risposta è “nel vento”, per rimare in tema di citazioni.
Celie a parte, la Cappadocia, regione a cavallo tra l’Asia minore e la Mesopotamia (sì, proprio quella che abbiamo studiato sul sussidiario delle elementari; quella del Tigri, dell’Eufrate e di tutti i popoli che poi hanno provato a fondare una loro civiltà), è una terra misteriosa e immensa. L’orizzonte si sposta più in là ad ogni metro percorso e l’erosione sembra irridere i suoi abitanti: prima cede spazio ad immense colture di grano, delle quali, spesso, non si vede la fine, ma poi, bruscamente, le vallate erose riprendono il predominio cangiando di colore. Dal giallo ocra passano al rosso purpureo; dal colore della terra riarsa dal sole, al verde brillante di sparuti alberi di pino nero.
Tra polvere e bellezza
Siamo arrivati in Cappadocia con un volo interno da Istanbul, transitando dal secondo aeroporto più grande del mondo ad uno dei più piccoli, quello di Nevşehir, distante circa 30 chilometri da Göreme, città simbolo della Cappadocia – anzi, della Kappadokia come la chiamano da quelle parti – .
Se sei stato in Turchia e conosci i turchi, sai come guidano. E se conosci anche me, sai quanto io non ami la guida spericolata e quanto il mio linguaggio possa diventare “edulcorato” in caso di manovre compiute da autisti che però hanno poco dei piloti; ecco, fortunatamente sul mezzo che ci ha fatto da transfer non c’erano italiani, così come non c’erano sopra nessun altro mezzo che abbiamo utilizzato… altrimenti il nostro blog avrebbe certamente avuto un picco di curiosi, attirati dalle mie imprecazioni e scenate in una lingua sconosciuta. 🙂
Quando arriviamo – sani e salvi! – a Göreme, il sole sta ormai calando e i suoi raggi fanno capolino tra i camini delle fate, le enormi concrezioni di tufo, dalle forme coniche, che al loro interno custodiscono misere abitazioni scavate a mano e che rendono unico il paesaggio circostante. Infatti, dal 1985 sono patrimonio dell’UNESCO.
La luce fantastica è la prima grande emozione che ci regala questa terra. Sembra di vivere all’interno di un orton effect, cioè quella tecnica fotografica che rende morbidi e ovattati i panorami. Il cielo costantemente terso, senza una nuvola, i monoliti di tufo che svettano sopra improvvisate e spesso fatiscenti casupole o sopra improbabili hotel e l’arancione che riverbera ovunque sono la sintesi del nostro primo impatto con la città.
Göreme è piccola; più propriamente, infatti, con i suoi circa duemila abitanti, che aumentano in maniera esponenziale nelle stagioni turistiche, sarebbe meglio parlarne come di un paese, un paese tremendamente malconcio, che cerca di indossare il suo abito migliore e di imbellettarsi il giorno della festa.
La polvere delle strade non ancora asfaltate ti si appiccica addosso e sono inutili i tentativi di abbassare con l’acqua quella alzata dalle centinaia di auto che trasportano turisti a destra e a manca. L’olezzo dei cassonetti dei rifiuti è spesso nauseabondo. I taxi e le auto in genere minacciano costantemente la vita dei pedoni. I cumuli di immondizia fanno da quinta immeritata al meraviglioso paesaggio.
La dignità ed il calore dei vecchi abitanti, tuttavia, stemperano ogni magagna.
Il paese è in piena fase di sviluppo, anche se pare sia uno sviluppo abbastanza incontrollato, che porterà alla costruzione di centinaia di altri posti letto, con annessi servizi di ristorazione ed alloggio. Ce lo dice anche Fatma, la gentile ragazza che ci accoglie nell’hotel in cui alloggiamo, il Century Cave, e che ha una vera passione per l’Italia e la sua lingua, tanto che facciamo subito amicizia.
I due giorni successivi al nostro arrivo li utilizziamo per esplorare le bellezze archeologiche di quest’area ed è così che conosciamo Mehmet – proprio lui, il Robert De Niro turco -.
Sarebbe inutile e riduttivo elencare tutte le meraviglie in cui ci imbattiamo: rappresentano un mondo lontano anni luce dal nostro. Sono abitazioni scavate nel tufo, città sotterranee senza inizio e senza fine; chiese, templi, stalle, celle, piccionaie. Sono Storia che si sovrappone ad altra Storia. Sono conquiste, rotte commerciali, invasioni di popoli stranieri, religioni che hanno sostituito altre religioni, sono la vita di filosofi, santi, astronomi, protomedici, eremiti… in Cappadocia passarono in molti per giungere in Asia o per arrivare in Europa. La via della seta, aveva qui alcune delle sue tappe principali: i persiani la elessero a Satrapia; Alessandro Magno la conquistò; i romani ne fecero una loro provincia; i cristiani vi cercarono rifugio cominciando proprio da queste parti a diffondere il Vangelo.
Per visitare approfonditamente i siti ci vorrebbero svariati giorni, mesi forse. Ma per farlo in maniera comunque sufficiente per apprezzarli sono stati elaborati dalle numerose agenzie turistiche alcuni tour, distinti con tre colori, rosso, blu e verde, che in giorni diversi vi condurranno alla scoperta delle località più importanti (mi raccomando: spulcia bene le varie offerte perché i prezzi possono variare proponendo lo stesso itinerario).
Il cielo delle favole
Per noi la meraviglia, quella che stupisce e crea domande che non necessitano obbligatoriamente delle risposte, è arrivata il terzo giorno.
Ma andiamo con ordine.
Nei paesi islamici, il muezzin, dall’alto del minareto, ricorda ai fedeli che in cinque ore diverse del giorno devono pregare. Il primo invito alla preghiera viene fatto solitamente alle 4:30 del mattino, minuto più minuto meno. La sua voce, amplificata dagli altoparlanti, è uno squarcio irreparabile nel cuore della notte, soprattutto per chi ha il sonno leggero (leggasi il sottoscritto… certo non per Chiara). Il mio sonno già turbato subisce un ulteriore scossone circa una mezzora più tardi, quando sento il rumore di un fornello che brucia ripetutamente gas.
Intontito dal sonno, non realizzo subito cosa stia succedendo; penso agli operai, che, di buonora, hanno cominciato a lavorare nei cantieri circostanti. Ma il rumore del gas che brucia si fa sempre più intenso, tanto da svegliarmi definitivamente. Mi alzo, corro alla finestra e sgrano gli occhi: sopra la mia testa, centinaia di palloni variopinti si stanno lentamente alzando in cielo, accompagnati dalla timida luce dell’alba.
Butto giù dal letto anche Chiara, ci vestiamo velocemente. Reflex in mano e di corsa raggiungiamo il punto panoramico di Göreme (ai piedi dell’altura su cui si erge, si pagano 10 lire turche a testa, circa 30 centesimi di euro; in fin dei conti, il costo della vita in Turchia non è alto, se paragonato a quello europeo: il salario minimo si attesta sui 250 euro al mese, quello medio a circa 500).
Raggiunto il belvedere, ci troviamo nel bel mezzo di una favola.
I palloni danzano nel cielo disegnando impossibili traiettorie: alcuni, spinti dal vento, prendono quota, altri rimangono più bassi, qualcuno rasenta le nostre teste. È una danza corale e tutti sono ballerini sullo stesso palcoscenico, per poco più di un’ora di spettacolo.
Quando ormai la luce dell’alba evapora e il nuovo giorno prende il sopravvento spalancando la porta ai rumori della città, le mongolfiere, per questioni di sicurezza, cominciano ad atterrare, scomparendo lentamente dal cielo ormai vuoto. Una sparizione temporanea però, perché la loro danza riprende il giorno dopo, quello dopo ancora, e quello ancora dopo… e noi, finché ci è possibile, ogni mattina siamo lì, ad assistere increduli.
Non voglio esagerare: da fotografo naturalista ho la fortuna di ammirare da vicino gli animali selvatici; vivo la montagna; la roccia, l’acqua, le piante e i fiori. Ogni atomo di Natura mi riempie la mente; mi stritola il cuore e mi taglia il respiro. E sono felice di essere sempre lì, nel vano tentativo di imprigionare tutto con la mia reflex. Le mongolfiere non hanno la forza travolgente della Natura, ma hanno qualcosa di mistico, di poetico, di imponderabile: hanno la forza del volo nella leggerezza dell’aria.
In volo
Abbiamo avuto la fortuna di provarlo, il volo, e ti assicuro che ne è valsa la pena.
In occasione del compleanno di Chiara, ci siamo detti che avremmo anche potuto regalarci quest’avventura, certo non proprio economica, ma irripetibile.
Anche in questo caso, mi raccomando: per non farti spellare dalle agenzie che organizzano i tour in mongolfiera, ti consiglio di cercare con una certa costanza il volo che più ti interessa e monitorarne il costo poiché è legato a tanti fattori. Potresti trovare offerte molto diverse tra loro (noi ci siamo rivolti a Scoprireistanbul.com e, optando per il volo nella valle di Çat, meno inflazionata, siamo riusciti a risparmiare parecchio sul costo totale).
Svegliarsi alle 3.40 di notte, comunque, equivale a prendere una badilata sulla faccia che si infrange con potenza un po’ sul naso e un po’ sulla fronte. Svegliarsi alle 3.40 di notte, mentre si è in vacanza (perché in fin dei conti siamo comunque in vacanza) equivale a prenderne almeno due di queste badilate, ma dalla parte del taglio.
Come avrai capito, prerogativa dell’esperienza in mongolfiera è quella di svegliarti prestissimo. Il nostro appuntamento è fissato per le 4.15. Un pulmino ci accompagna nel luogo di ritrovo dove ci offrono l’immancabile çay e un simit, la ciambella di pane al sesamo tipica di queste parti. Intanto da lontano arrivano le litanie del muezzin e il nuovo giorno comincia ad abbigliarsi con i magnifici colori dell’aurora.
Per strada incrociamo decine di van con il cesto di vimini sul carrello, presagio che il luogo del decollo è ormai vicino.
Un campo di grano appena mietuto funge da rampa di lancio. Con gesti sapienti e ritmati, alcuni ragazzi srotolano gli enormi palloni; poi giganteschi ventilatori soffiano aria all’interno delle mongolfiere che, in questa fase, assomigliano tremendamente a balene spiaggiate. L’aria sospinta da ventilatori viene successivamente riscaldata da potenti bruciatori che, con rabbia, sputano fuoco e calore.
È solo quando la legge di Archimede torna ad imporsi che la magia si avvera: le mongolfiere si innalzano con tutta la loro eleganza e possono così decollare. Entriamo nei cesti e cominciamo a salire lentamente verso il cielo. Voliamo radenti sopra le case, che sono caverne, sopra gli orti e tra minuscoli vigneti. La lentezza del pallone desta il sonno di una lepre che tenta inutilmente di nascondersi. Alcune pernici, allertate, frullano via così veloci da perdersi nelle tinte brune della campagna. Le upupe, i nibbi bianchi e centinaia di piccioni ci accompagnano. D’un tratto la terra coltivata si arresta: il paesaggio diventa arido, impietoso, lunare. Poi, piano piano, si fa tutto più piccolo, fino a sfuggire alla nostra vista.
In lontananza, verso la silhouette del magnifico castello naturale di Uçhisar, riusciamo a scorgere centinaia di palloni che affollano l’orizzonte.
Dopo circa un’ora atterriamo, dolcemente, in un campo poco distante da quello da cui siamo decollati. Qui viene improvvisata una cerimonia per accontentare noi turisti occidentali con spumante (sono le 6.15 del mattino) e un attestato che certifica la nostra esperienza.
Un contadino ci offre anche un pezzo di cocomero (sono sempre le 6.15 o giù di lì) e insieme agli altri compagni di volo rivolgiamo gli auguri a Chiara per il suo compleanno. Un’anziana donna, dal capo e dal volto coperto per i princìpi della sua religione, addirittura la abbraccia calorosamente, rivolgendole, nella sua lingua, la buona fortuna. Le dona una carezza di nonna: un regalo immenso e prezioso.
Facciamo ancora qualche foto e riprendiamo la via di casa.
Il nostro stupore si è, ora, trasformato in ebbrezza. Annaspiamo nelle emozioni. Le riviviamo. Le accarezziamo e poi, quasi malinconicamente, ce le raccontiamo con un ritmo martellante che ci impedisce di pensare ad altro.
Tuz Gölü
Arriviamo in albergo che sono le 7.30: abusiamo dell’abbondate colazione per poi tornare a dormire qualche ora. Ma come ti ho detto, noi non possiamo rilassarci in vacanza. Noi dobbiamo soffrire. Così, dopo una dormita inutile e devastante, ci spariamo tre ore di macchina per raggiungere il lago Tuz Gölü.
Da una parte della strada, a destra, le colline, i canyon e le pianure coltivate a grano giocano a rincorrersi; dal finestrino è facile scorgere stormi di cicogne che, con impegno, cercano qualcosa da mangiare nei campi appena mietuti, ma montagne di plastica abbandonata violentano brutalmente una terra forse non troppo amichevole, rompendo l’incanto di una bellezza per noi nuova, non conosciuta. Dall’altra, a sinistra, corre invece una lunga e rigogliosa depressione del terreno: si sa, la Turchia è territorio di grandi movimenti tettonici e questa faglia, metro dopo metro, lo ricorda.
È proprio sulla sinistra che il lago appare all’improvviso: una distesa bianca di sale che riverbera i forti raggi del sole, ancora alto nel cielo. Sì, il lago Tuz Gölü è un lago salato. Ed è, per dimensioni, il secondo più grande dell’Anatolia, anche se il suo sale riesce a soddisfare il fabbisogno alimentare di tutti i turchi e non solo.
Individuato il punto di accesso, ci accorgiamo che in realtà il Tuz Gölü è una sorta di grande attrazione turistica: parcheggio per auto e pullman, grande negozio di souvenir in cui il sale viene venduto in tutte le sue forme (nei minimarket delle città turche, lo stesso sale, magari con una confezione diversa, viene venduto ad un quarto del prezzo).
Decidiamo comunque di fermarci per scattare qualche foto, ma la luce è dura e non rende giustizia alla bellezza che abbiamo davanti. Così, momentaneamente deluso, scartando tra un turista e l’altro, decidiamo di aspettare il tramonto.
Le attese sono sempre rivelatrici: bevendo l’ennesimo çay, cerchiamo di individuare un altro punto di ingresso al lago. Ne troviamo uno a pochi chilometri da noi, meno battuto.
Risaliamo frettolosamente in auto e procediamo verso la nuova entrata: si tratta di un viottolo tortuoso e sterrato che penetra all’interno della laguna seccata dal sole. Parcheggiamo. Acciuffiamo l’attrezzatura fotografica ed entriamo nelle viscere del lago: il sole ormai ha toccato l’orizzonte, i raggi sono diventati tenui e la morbida luce disegna forme e profili utilizzando tutte le sfumature del rosso. Ci spingiamo lentamente all’interno, lo scricchiolio del sale sotto i piedi si fa sempre più intenso; un fragile rivolo d’acqua sbarra il nostro cammino: ci lasciamo sorprendere dalla notte, siamo soli, nel cuore del continente, in un lago di sale, in una terra che non conosciamo ed è tutto bellissimo.
Torniamo in albergo a notte inoltrata: le valige già quasi pronte ci ricordano che tra un paio di giorni, un aereo ci riporterà a casa. Ecco, in questi casi non mi assale la tristezza del ritorno, ma la nostalgia cara ad Ulisse: il voler tornate per raccontare quello che si è vissuto.
È la consapevolezza che sarà impossibile farlo a generare tristezza e malinconia.
Santiago de Compostela: la bellezza alla fine del mondo
La Galizia
All’estremità occidentale dell’Europa c’è la Galizia, la regione autonoma della Spagna e una delle regioni celtiche d’Europa.
Una terra povera – pensa che in alcuni remoti paesini chiamati aldeas la corrente elettrica è arrivata meno di vent’anni fa! –, fatta di vecchie montagne dai profili levigati dal vento e dalla storia, caratterizzata da rigogliose vallate solcate da fiumi, che formano canyon interminabili e misteriosi. Infinite sono le tonalità di colori, gli orti di patate e di granoturco, i piccoli vigneti, le vacche asturiane che pascolano liberamente.
Forse proprio per questo motivo molti “spaghetti western” furono girati in queste zone incredibilmente simili ai deserti texani o ai paesaggi erosi dell’Arizona. Una terra situata al cospetto dell’Atlantico – non a caso, i Greci indicavano come “fine del mondo” – che fa dire ai Galiziani che l’Europa “è tutta dietro di loro”. Omero diceva che qui il sole completava il suo giro per risorgere, il giorno successivo, ad Oriente. Il sole a Santiago de Compostela, la città capoluogo della regione, tramonta tardi. E l’ultima luce che faticosamente illumina la città vecchia lascia senza fiato. Delicatamente, sembra avvolgere, come un mantello, gli edifici, le strade, gli angoli. Sembra quasi voglia custodire la storia della cristianità.
Il Cammino
Ma Santiago è pure una città strana, fatta di contraddizioni architettoniche, di gente tranquilla, di spazi enormi, di turisti che da quelle parti sono quasi sempre peregrinos: è qui che termina il famoso “Camino” – il più celebre tra quelli che attraversano la Spagna e il Portogallo è il cammino francese, ma per maggiori informazioni e per organizzare il tuo viaggio puoi fare riferimento a questo sito – che da secoli guida molti fedeli alla tomba di San Giacomo il Maggiore, di cui la città porta il nome.
Le spoglie del Santo, ucciso a Gerusalemme, misteriosamente arrivarono – e qui leggenda, fede e storia cominciano a confondersi – in Spagna. Nell’813 l’eremita Pelayo, che per campare faceva il pastore, fu attratto dal potente fascio di luce che emanavano alcune stelle. Lo seguì: una freccia luminosa indicava un cumulo di terra in un campo sterminato. Scavando, trovò delle ossa umane. Ecco perché “Campostela”: “campo stellato”, campus stellae, in latino. Il pastore, impaurito e un po’ sorpreso, corse ad avvertire il vescovo Teodomiro, che dichiarò che quelle ossa appartenevano inequivocabilmente a San Giacomo. Fu costruita una piccola cappella per custodirle e nel giro di qualche anno cominciò un assiduo pellegrinaggio verso la tomba. La Via Lattea fu la prima ad insegnare la strada, per questo si parla di “Via delle Stelle”.
Dopo alterne fortune, da qualche decennio, a Santiago arrivano, dopo aver percorso il Cammino, circa centomila persone all’anno.
Oggi la città conta circa novantamila abitanti che vivono perlopiù nella zona periferica. La parte vecchia è abitata da studenti – la città è sede di una delle più importanti università europee – ed è ricca di negozi che hanno fatto del Cammino la loro unica impresa. A Santiago, infatti, tutto è legato al Cammino. Ogni cosa riconduce al pellegrinaggio: ogni ammennicolo urbanistico, ogni insegna, ogni albergo, ogni negozio, ogni gadget.
La conchiglia di Pecten (il mollusco che vive nell’Atlantico, chiamato anche “Capasanta”), simbolo per eccellenza dei pellegrini, è riprodotta ovunque, così come le frecce gialle che conducono alla cattedrale, immensa e imponente, affacciata sulla Plaza de Obradoiro che è pure sede della Xunta de Galicia, il governo autonomo galiziano.
Se sei fortunato, nella chiesa avrai la possibilità di assistere alla cerimonia del “botafumeiro”, il maestoso turibolo. Noi lo siamo stati e te lo raccontiamo qui.
Ma se dovessi perderti lo spettacolo, non temere: vale comunque la pena entrare nella cattedrale, oltre che per la bellezza degli interni, anche perché sotto l’altare maggiore c’è ancora l’urna in argento che contiene le reliquie del patrono.
Finisterre
Con un po’ di tempo a diposizione, poi, salta su un taxi o su un autobus, oppure allena bene i muscoli delle gambe per andare a piedi, e raggiungi Finisterre, il luogo in cui, fino a poco tempo fa – quando ancora era possibile – i pellegrini bruciavano sulla riva del mare, a scopo propiziatorio, un oggetto usato lungo il cammino. Un modo per chiudere un capitolo della propria vita e iniziarne un altro.
Siediti sulla spiaggia e lasciati inebriare dalla bellezza del tramonto e dalla sensazione di avere davvero l’intera Europa alle spalle.
Insomma, da pellegrino o da semplice turista, Santiago de Compostela e la Galizia sapranno regalarti emozioni che difficilmente avresti modo di rivivere da altre parti del mondo.
Ti abbiamo convinto? 😊
LO ZAINETTO DI KALIPÈ
- Guida (se decidi di fare il Cammino)
- Film: Il cammino per Santiago
Ad Amsterdam in bicicletta!
Se ti trovi nella capitale olandese, noleggiare una bicicletta è un’esperienza a cui non puoi assolutamente rinunciare. E se ti spaventa affrontare il traffico a due e a quattro ruote delle strade di Amsterdam, non hai motivi per desistere: ti basterà spostarti un po’ più in là per scoprire una realtà completamente diversa, di cui non ti pentirai.
Amsterdam Noord
Dal molo dietro la stazione ferroviaria, partono dei traghetti gratuiti (sui quali potrai imbarcarti direttamente in sella) che fanno la spola sul fiume IJ, raggiungendo in pochi minuti Amsterdam Noord, zona in velocissima espansione: ospita il grande Eye museum (il museo del cinema) e la famosa A’DAM tower, la torre panoramica che, con i suoi 100 metri, è la più alta della città (pssst! Sul terrazzo dell’edificio, i viaggiatori temerari troveranno le altalene più alte d’Europa, che oscillano avanti e indietro oltre il parapetto della piattaforma!).
Il percorso ciclabile
Presso il centro informazioni, o direttamente dove noleggerai la bici (noi ci siamo rivolti a Mac Bike), procurati una cartina delle piste ciclabili e scegli il percorso che fa per te. Sono tutti ben segnalati: è praticamente impossibile perdersi o sbagliare direzione.
Si hanno tre opzioni:
– la Durgerdam route (15 km per circa 2 ore di pedalata),
– la Broek in Waterland route (25 km per circa 4 ore di pedalata),
– la Marken route (con i suoi 30 km è la più impegnativa, per circa 6 ore di pedalata, ma permette di arrivare al caratteristico villaggio di Marken sull’isoletta a sud del grande lago artificiale di IJsselmeer, fino al 1957 raggiungibile solo con la barca).
Verso Broek in Waterland
Per motivi pratici (avevamo poco tempo perché ci aspettava l’aereo di ritorno), scesi dal traghetto abbiamo fatto un po’ di testa nostra, pedalando per un totale di 12 km.
Abbiamo imboccato prima un tratto della Durgerdam route, inoltrandoci in un bel parco, per poi seguire la segnaletica per la Marken route. Ma non era quella la nostra destinazione finale, quindi, ad un incrocio, abbiamo svoltato verso Broek in Waterland.
Il percorso è agevole (i rapporti della bici aiutano) e il paesaggio meraviglioso: si attraversa la quiete della campagna olandese, lasciandosi alle spalle i tipici mulini, canali in cui galleggiano placide le houseboats (le iconiche case galleggianti olandesi) e pecorelle qua e là. E più si affonda sui pedali, più cresce la sensazione di essere finiti in un quadro di Van Gogh!
Inutile dire che è impossibile non fermarsi ogni dieci metri per fotografare e per guardarsi intorno (oltre che, se siete fuori forma come Ale, per riprendere fiato! 😉 ).
Broek in Waterland appare come una pennellata lieve, tratteggiata a poco a poco su una tela in cui si dispongono casette dal tetto spiovente con, al centro, una chiesetta. Non c’è anima viva e l’unico suono che arriva alle nostre orecchie è il lambire dell’acqua del canale che accarezza i fianchi delle barchette ormeggiate lungo le rive.
Parcheggiate le bici (mi raccomando, usa la catena e il lucchetto che ti forniranno per evitare di essere vittima di furto!), ci siamo avviati lungo la stradina che, costeggiando la riva, si inoltrava verso il centro, dove abbiamo riposato godendo della tranquillità del luogo.
Pausa pranzo meritata
Prima di rimetterci in sella verso la direzione opposta, affamati per lo sforzo, abbiamo deciso di rifocillarci. Un localino dall’aria accogliente, che avevamo superato all’ingresso del paese, ci è parso il posto giusto dove assaggiare cibo tipico… e l’istinto non ci ha ingannati!
Il De Witte Swaen è confortevole e trasmette un piacevole senso di calore e cordialità. Lo troviamo semivuoto e approfittiamo per rilassarci e tirare le somme del nostro viaggio, che sarebbe giunto al termine di lì a poco… ma approfittiamo, soprattutto, per assaggiare i celebri Pannenkoeken, le crêpes olandesi. Ce n’è per tutti i gusti e, dopo un’ardua scelta (avremmo voluto provarli tutti!), finalmente possiamo leccarci i baffi e recuperare energie.
Cosa aspetti? Provare per credere! 🙂
Orsi dite “cheeeese”…
Una delle esperienze più avventurose in Lapponia? Fotografare orsi bruni in libertà!
Se qualcuno mi chiedesse quale esperienza di viaggio, tra quelle vissute fino ad ora, mi ha segnata più di tutte, non farei fatica a rispondere: fotografare gli orsi bruni a due passi dalla Lapponia finlandese. In questo post proverò a spiegarti il perché.
A spingere affinché organizzassimo un viaggio in Lapponia è stato Alessandro. Come saprai, è appassionato di fotografia naturalistica e la Finlandia, per gli amanti della natura, è un paradiso. Perciò, prima ancora di comprare i biglietti aerei, Ale si è messo all’opera e ha studiato siti, riviste, libri, blog (eccetera eccetera) per capire cosa/come/dove fotografare. E quando è venuto a chiedermi se mi sarebbe piaciuto trascorrere una notte in un capanno fotografico per tentare di immortalare gli orsi che popolano il confine tra la Finlandia e la Russia, sono saltata sulla sedia e ho risposto immediatamente di sì. Vedere un orso in libertà era un mio sogno da tempo… quale migliore occasione?
A niente, quindi, sono valsi i tentativi di riportarmi con i piedi per terra: saremmo partiti a fine settembre, con l’inverno alle porte, e la possibilità concreta di pagare una cifra non proprio economica per fare solo un buco nell’acqua era alta. La riuscita della “spedizione”, insomma, non era affatto scontata, ma io ero ormai troppo entusiasta per riuscire a placare le mie aspettative.
Karhu-Kuusamo
Si contano diversi luoghi, nelle regioni boreali, in cui sono state allestite aree di avvistamento per la fauna selvatica. Sono particolarmente note le zone di Kainuu e Kuhmo, abitate anche dal lupo grigio e dal ghiottone. Per ragioni logistiche (il nostro itinerario, ad anello, partiva da Rovaniemi per toccare Capo Nord, in Norvegia, e poi tornare indietro; qui puoi trovarne un piccolo assaggio), abbiamo optato per Kuusamo, dove siamo arrivati nel primo pomeriggio di una giornata tiepida e tersa. L’appuntamento con Pekka, il responsabile dei capanni con il quale avevamo preso accordi, era nel cuore del bosco, alla fine di dodici chilometri di saliscendi in mezzo al nulla.
Neanche a dirlo, in quella zona i telefoni non prendono e la minaccia di mia madre di rivolgersi alla Farnesina qualora non avesse avuto mie notizie entro la sera del giorno successivo ha iniziato a tornarmi alla mente in modo sempre più insistente. Ne sarebbe stata più che capace.
Nel bosco
La prima cosa che mi ha colpito appena arrivati all’incontro è stato il silenzio. Il bosco si apriva per dare spazio a una spianata erbosa dove avremmo lasciato le auto. Intorno a noi si estendevano alberi a non finire ed era forte la sensazione che l’essere umano più vicino fosse, in realtà, parecchio distante.
È durata poco, però, perché Pekka è arrivato, puntualissimo, accompagnato da una coppia irlandese con un bambino di circa 7-8 anni. I visi di tutti erano emozionati e carichi di attesa.
Le istruzioni dateci sono state semplici: avremmo dovuto prendere tutta l’attrezzatura, acqua, cibo… insomma, ogni cosa necessaria; l’indicazione categorica, infatti, era di non lasciare i capanni, per nessun motivo, fino alla mattina dopo.
Finalmente ci siamo incamminati lungo un sentiero nel bosco, per trovarci, dopo aver scollinato, di fronte ad un paesaggio meraviglioso: una vasta radura acquitrinosa protetta da betulle su tutti i lati, a poca distanza dal confine russo. Si potevano scorgere anche i capanni fotografici: tre più “classici”, in assi di legno e lamiera, uno molto più simile ad un alloggio, con tanto di letti, cucina, bagno, illuminazione e, su tutto, il riscaldamento. Non nego di aver sperato che fosse destinato a noi; sarebbe stato certamente più confortevole passare la notte al riparo di un tetto vero. Ma, come è giusto che fosse, Pekka ha preferito assegnarlo alla famiglia con bambino al seguito, che aveva di sicuro più esigenze di noi.
Il capanno
Sistemati loro, quindi, io e Ale siamo stati guidati verso la struttura poco distante, dall’aspetto molto meno accogliente. Questo capanno era dotato di un unico ambiente sviluppato in lunghezza, al quale si accedeva da una piccola anticamera con bagno a secco (se non sai cosa sia, ti consiglio di fare una ricerca on-line… ti farai una grassa risata alle nostre spalle!). Al posto delle finestre c’erano i fori per far passare le macchinette fotografiche, due binocoli, qualche sedia, lampade a batteria e un materasso da campeggio buttato in un angolo sul pavimento.
Nonostante Pekka ci avesse avvisati che le temperature sarebbero scese parecchio, Ale conferma l’intenzione di pernottare e chiede di poter tornare alla macchina per recuperare un obiettivo che aveva dimenticato (alla faccia di tutte le raccomandazioni iniziali!). Io, intanto, me ne rimango in silenzio, sconfortata dal paragone tra l’altro capanno – che equivaleva, in quella situazione, all’Hotel Excelsior – e il nostro. In attesa di Pekka e Ale, chiusa dentro dall’esterno a doppia mandata, mi accorgo di non essere sola e il mio scoramento si acuisce ancora di più: un topolino stava tranquillamente zampettando sul materasso su cui avremmo dormito, incurante di me.
Di ritorno, Ale mi trova, quindi, con la faccia funerea e, quando Pekka ci saluta augurandoci buona fortuna e lasciandoci sette sacchi a pelo e altrettante coperte, gli viene quasi da ridere.
Decido di non perdermi d’animo: in fondo ero preparata a quello che avremmo trovato e, anzi, ero stata io ad insistere per non cambiare i piani quando, per un attimo, Alessandro era sembrato intenzionato a farlo.
Era quello che volevo, come me lo aspettavo e, adesso che avevo superato il disagio della prima ora, iniziavo ad apprezzare quello che stava succedendo. Eravamo immersi nella natura, con nessuno a disturbarci, e, orsi o non orsi (Ale, con l’ottimismo che lo contraddistingue, continuava a ripetere che non ne avremmo visto neanche mezzo), era già tutto perfetto.
Invece…
Un’emozione incredibile
Mentre ancora ci stiamo organizzando, iniziano a tremarmi le gambe. Per la seconda volta nel giro di pochi minuti, divento incapace di proferire parola. Strattono Alessandro per la maglietta, invano: continua a tirare fuori dallo zaino macchinette, obiettivi, telecomandi, batterie, varie ed eventuali, troppo concentrato per accorgersi dei miei tentativi di attirare il suo interesse. Non credo ai miei occhi, ma riesco a farmi uscire un minimo di fiato e, senza dare in escandescenze, anzi, scandendo addirittura il suo nome, riesco a chiamarlo. Si volta e quasi lascia cadere il materiale fotografico per lo stupore.
Dalla parte opposta rispetto a noi, sul limitare del bosco, era comparsa un’orsa adulta seguita da due orsacchiotti, palle di pelo con le zampe.
È impossibile spiegare a parole la miriade di emozioni che abbiamo provato in un istante. Sorpresa, gioia, timore, esaltazione. E pensare che eravamo convinti (Ale era convinto) che non avremmo avvistato nulla! I cuccioli, poi, sono stati un regalo assolutamente inatteso e impagabile. Ci siamo sfogati a fotografarli e, soprattutto, ad osservarli: quanta tenerezza mentre scorrazzavano tra giochi e dispetti sotto lo sguardo vigile della mamma! Rimanendo a distanza, ci hanno fatto compagnia per un’oretta, per tornare infine ad inoltrarsi nel bosco.
Increduli, io e Ale ci siamo guardati negli occhi, senza parlare. Era stato tutto così immediato da non darci il tempo di metabolizzare lo spettacolo al quale avevamo appena preso parte.
I nostri vicini, nel frattempo, evidentemente soddisfatti, avevano ripreso la via di casa scortati da Pekka.
Questa volta eravamo davvero soli.
L’attesa viene ripagata
Per una mezz’ora siamo rimasti inerti. Avevamo paura di disturbare l’equilibrio della foresta, con il sole che iniziava a sfiorare le cime degli alberi e il sottofondo del cinguettio degli uccelli.
Solo un vento freddo e fastidioso si è levato per guastare l’atmosfera; vento che non faceva fatica ad insinuarsi nel nostro “rifugio”, data la presenza dei numerosi varchi per gli obiettivi fotografici di cui vi ho accennato prima. È stato l’unico momento, durante il soggiorno in Lapponia, in cui ho davvero patito il freddo, nonostante i diversi strati di vestiti termici che indossavo mi rendessero simile all’omino della Michelin.
Così come era venuto, il vento si è placato all’improvviso a metà pomeriggio.
Intirizziti, ma con la speranza non ancora sopita, continuiamo a guardare fuori: di tanto in tanto due aquile dalla coda bianca ci regalano la loro presenza e, intorno alle 17.30, fa capolino una volpe dal bel manto invernale (ma troppo lontana per essere fotografata).
Ma anche qualcos’altro si muove.
Non faccio in tempo ad indicare ad Alessandro il ritorno dell’orsa con i due piccoli, che subito ne arriva una seconda, seguita da ben quattro orsetti. Le due mamme non sembrano felici di trovarsi nello stesso territorio: rimangono a distanza, studiandosi con i denti scoperti.
Nel giro di pochissimo, fanno contemporaneamente il loro ingresso, da diversi punti della foresta, alcuni esemplari di maschi. Subito le orse appianano le rivalità e fanno squadra per proteggere i piccoli, che si stringono impauriti l’uno all’altro. La tensione che corre tra gli animali la avvertiamo anche noi. I cuccioli si lamentano e i tre meno coraggiosi si arrampicano sugli alberi lì da presso.
Non è raro che gli adulti attacchino le cucciolate per motivi riproduttivi, ma mai nella vita avrei pensato di assistere ad un evento simile. Sembrava di essere finiti in un documentario firmato National Geographic!
Le orse, comunque, sanno difendersi bene. Ringhiano, mugugnano, tirano qualche zampata minacciosa e simulano alcune cariche. Ben presto rimettono i “ragazzi” al loro posto, con mia grande gioia (facevo il tifo per i sei piccoletti e Ale ha dovuto trattenermi perché mi sarei buttata nel mucchio per difenderli… o, più probabilmente, per finire sbranata).
A scontro concluso, visibilmente più rilassati una volta ristabilite le gerarchie, i sei adulti si dedicano alla ricerca di cibo, mentre i piccoli razzolano in giro. Ci circondano da ogni lato, con l’esemplare più vicino a meno di dieci metri.
Ascoltiamo nitidamente i loro grugniti che si perdono nello stormire delle foglie e ci godiamo la luce dorata del tramonto. Qualcuno di loro sembra registrare la nostra presenza perché si volta verso di noi, ma evidentemente non li disturbiamo perché continuano a mangiare.
Solo due episodi turbano l’armonia: 1) l’arrivo tardivo di un maschio adulto enorme, spaventoso, molto più grosso dei suoi simili e con una vistosa cicatrice a corrergli lungo la schiena. Un animale impressionante, che ha fatto venire i brividi anche a me. Appare nervoso e affamato e tutti si ritraggono al suo passaggio, facendogli spazio. Di nuovo, i cuccioli spariscono sugli alberi in un fuggi fuggi generale, scendendo, questa volta, parecchio tempo dopo. 2) Affamata, apro lo zaino e afferro, con il mio solito fare maldestro, un pacchetto di patatine… inutile dire come il rumore della carta, nel silenzio assoluto, abbia causato il panico generale tra i plantigradi e come io abbia rischiato il linciaggio da parte di Ale, che era nel pieno del suo estro fotografico.
La notte e l’alba
Abbiamo smesso di scattare solo quando ormai era diventato troppo buio per realizzare foto decenti, ma gli orsi non sono andati via. Dopo aver mangiato qualcosa approfittando del crepuscolo, ci siamo sistemati per la notte: per cercare di ripararci dalle correnti d’aria, Ale ha posizionato contro le finestre i tappetini da campeggio, mentre io ho infilato i sacchi a pelo uno dentro l’altro e ho aggiunto qualche strato di vestiti nel tentativo di salvaguardare un po’ di tepore.
Il rimestare degli orsi nell’acqua ci ha cullati fino a verso le 2. Il ritorno della quiete ci ha svegliati, giusto in tempo per farci ascoltare gli ululati dei nuovi arrivati… ma anche i lupi si sono presto allontanati, lasciandoci riposare.
Alessandro aveva puntato la sveglia alle 6, speranzoso di fare qualche foto con lo sfondo dei colori dell’alba; si è preparato, quindi, e si è rimesso in posizione, sempre armato di macchinetta. Io, invece, ho preferito continuare a sonnecchiare, senza la minima intenzione di tirare il naso fuori. Ale, nel frattempo, mi tiene aggiornata, informandomi che non si muove una mosca. Il meteo non lo assiste, perché cade una pioggerellina leggera. Mentre osserva il cielo, l’orizzonte si tinge di un rosso acceso e l’intensità della pioggia aumenta. Ma non è più pioggia… ora è una vera e propria tempesta di neve!
Mi alzo anche io e, seduti vicini, stretti stretti, sentendoci piccolissimi in quella remota vastità, osserviamo mentre ogni cosa si vela di bianco e tutto si fa ovattato, come in una favola.
La conclusione perfetta di una giornata che porterò con me tutta la vita e che sono grata di aver vissuto.
Anche se, nei minuti successivi, pensando alla piccola vettura che avevamo noleggiato e che era parcheggiata ai piedi di una ripida salita da imboccare obbligatoriamente, la gioia si è trasformata in un interrogativo ricorrente… “E ora come ce ne andiamo?” 🙂
LO ZAINETTO DI KALIPÈ
- Libro: Il migliore amico dell’orso, di Arto Paasilinna
- Sito web per capanni a Kuusamo: https://www.karhujenkatselu.fi/
Braies, la “perla delle Dolomiti”
Se si amano i paesaggi naturali, quelli che lasciano senza fiato per la loro bellezza, non si può non andare a fare una passeggiata attorno al lago di Braies (Pragser Wildsee in tedesco), in Alto Adige, nel cuore della Val Pusteria.
Nel Regno dei Fanes
Una quinta strepitosa fatta di falesie e conifere accompagna le acque turchesi di questo bacino alpino, che è il più grande delle Dolomiti. Un posto unico, salito alla ribalta negli ultimi anni grazie alla fiction “Un passo dal cielo”, andata in onda su Rai Uno. Anche per questo il lago è preso d’assalto da una moltitudine di turisti che rendono quasi impossibile godere la pace e la tranquillità che emana. Ma, Terence Hill a parte, è comunque un posto dal grande fascino, i cui colori e profumi si stampano indelebilmente nell’animo del visitatore e che richiamano le suggestioni della leggenda ladina del Regno dei Fanes.
Non è un grande bacino, ma si sa che i laghi alpini non sono come quelli di pianura; ha un perimetro di circa 3 chilometri e mezzo, una larghezza che non supera i 400 metri e una profondità massima di 36. Il sentiero che lo circonda è adatto a tutti e in poco meno di un paio d’ore si riesce a costeggiarne l’intero tracciato. Non è un percorso particolarmente impegnativo: è adatto pressoché a tutti, purché l’abbigliamento e le calzature siano adeguate, e non richiede impegni fisici di alcun tipo.
Ormai è un posto molto frequentato (forse anche troppo… sii pronto ad una lunga coda di automobili!), il sentiero è ben battuto e pulito con ampi cordoli di cemento.
Come raggiungere il lago
Al lago si può arrivare in diversi modi, ben spiegati qui oppure qui; in ogni caso, ricorda che per raggiungerlo con la propria auto sarà necessario reperire un permesso che gli alloggi o i ristoranti della zona concedono esclusivamente ai propri ospiti e che il traffico è limitato nel periodo estivo (si potrà, però, approfittare di un servizio navetta, da prenotare in anticipo). Per avere informazioni più dettagliate, ti consiglio di dare un’occhiata a questa pagina.
Attività
Tieni conto che la visita è una sorta di “gita turistica”, che non ha nulla di avventuroso. Tuttavia, tante sono le attività che si possono praticare: dalla romantica gita in barca (che ovviamente Chiara mi ha pregato di fare, ma che sono riuscito ad evitare grazie ad un provvidenziale acquazzone… e no, non pensate male, non ho fatto la danza della pioggia! 😉 ), alla pesca sportiva, al trekking (proprio dal lago parte l’Alta via n.1). Contrariamente a quanto si possa pensare, non è possibile fare il bagno, per cui non imitare quanti ignorano il divieto.
Il lago è accattivante anche in inverno: si organizzano ciaspolate e c’è la possibilità di praticare sci d’alpinismo. Inoltre, nel periodo natalizio, una ventina di artigiani locali espongono e vendono i loro prodotti, si suona musica dal vivo e si può scegliere di fare giri in carrozze trainate da cavalli.
In ogni stagione, insomma, che sia coperto di neve, da uno strato di ghiaccio o specchio delle Dolomiti del Parco naturale Fanes-Sennes-Braies, vale la pena trascorrevi almeno una mezza giornata. La mente e gli occhi ne trarranno giovamento, così come, a fine giro, una birra e un pezzo di strudel saranno motivo di godimento per lo stomaco… che il bar lì vicino sarà lieto di accontentare.
LO ZAINETTO DI KALIPÈ
- Guida: Trentino Alto Adige – Touring Club Italiano
- Libro: Leggende delle Dolomiti, di K.F. Wolff
- Scarpe comode, possibilmente da trekking
- K-way
- Bacchette da trekking
Torneremo a viaggiare
Torneremo a viaggiare. E tutto si colorerà di tinte più accese, di profumi più intensi, di tramonti più lunghi.
Torneremo a viaggiare, in auto, treno, bicicletta, aereo. Torneremo a viaggiare a piedi, zaino in spalla, un passo dopo l’altro.
Torneremo ad assaporare cibi, a fotografare posti, a programmare avventure.
Torneremo a viaggiare con la brezza che ci scompiglia i capelli e il sole che scalda il viso, con la pioggia che scivola addosso e le stelle a indicarci il cammino.
Torneremo a viaggiare quando tutto sarà finito, ma non saremo più gli stessi.
Torneremo a viaggiare feriti.
Ma forse torneremo ad essere anche viaggiatori educati, consapevoli e sensibili.
Torneremo a viaggiare più grati e felici, più curiosi, bramosi di scoperta e accesi di passione.
Torneremo a vedere l’Aurora del Nord, i deserti del Sud, le montagne dell’Est e le grandi città dell’Ovest.
Torneremo ad incontrarci, a parlarci, a guardarci, a emozionarci, ad abbracciarci.
Torneremo a cercare ogni angolo del mondo, ogni duna, ogni foresta, ogni ghiacciaio, ogni pianura.
Torneremo a dire grazie per tutta la meraviglia che abbiamo attorno.
Torneremo a viaggiare riempiendo il passaporto di timbri e la valigia di ricordi, che si sedimenteranno in noi come il limo del fiume.
Torneremo a viaggiare e il prossimo viaggio sarà quello che non dimenticheremo mai.
Sarà quello della rinascita, della serenità ritrovata.
Sarà il viaggio della libertà.
Con un po’ di pazienza, toneremo a viaggiare.
Torneremo a viaggiare e torneremo a sognare.
Torneremo a viaggiare, quindi, a volare.
I serpari di Cocullo
Appare, dopo un’interminabile galleria sulla A25 in direzione Pescara, Cocullo, un paesino con meno di 300 abitanti che riposa nella valle del Rio Pezzana, vicino a Sulmona, nell’aquilano.
Si tratta di un piccolo borgo medievale immerso nelle verdi montagne abruzzesi ancora cariche di neve, a metà tra la Valle Peligna e la Marsica. Ma non è solo una località ricca di bellezze naturali e di storia, con il pittoresco centro storico e gli interessanti monumenti; è soprattutto un posto speciale.
Esistono luoghi, infatti, dove antichissimi riti pagani e tradizione cristiana si fondono, dando vita a spettacolari cerimonie folcloriche.
Cocullo è uno di questi.
Festa dei Serpari
Ogni 1° di maggio, a partire dal 2012 – prima aveva luogo il primo giovedì dello stesso mese – ospita la suggestiva Festa dei Serpari in onore di San Domenico, patrono della cittadina e protettore contro le odontalgie, i cani e i lupi. Ma, soprattutto, contro i morsi dei serpenti.
Ecco perché i moderni cacciatori di rettili, cercando di emulare il più fedelmente possibile le tecniche dei serpari antichi, risalgono il Monte Luparo, il Monte di Mezzo, Palancaro, Forca d’Oro e Luppo una ventina di giorni prima dell’inizio dei festeggiamenti per accaparrarsi cervoni, biacchi, saettoni, biscie, chiudendoli in cassette di legno o vasi di ceramica o terracotta in attesa del loro momento. Nessuno è velenoso.
La festa ha inizio con la celebrazione della messa, al termine della quale, alle 12.00 in punto, la statua del santo viene condotta a spalla sulla piazza principale e qui inghirlandata da un impressionante groviglio di code, teste e lingue sibilanti.
Ai lati, due ragazze in costume tradizionale portano sulla testa enormi canestri contenenti cinque “ciambellani”, pani sacri che ricordano un miracolo del monaco e che saranno offerti al termine della cerimonia ai portatori del simulacro e dello stendardo che aprono la processione.
La folla di pellegrini, visitatori o semplici curiosi, intanto, tira con i denti la cordicella di una campana all’interno della chiesa per farsi proteggere da eventuali malattie alle gengive o alla dentatura stessa, mentre altri fanno la fila per raccogliere, da una nicchia dietro l’altare, pietrisco e polvere da spargere intorno alle abitazioni o sui campi per tenere lontani pericoli di ogni genere e invocare protezione.
Dopo la processione
Prima e dopo la processione i serpari mostrano i rettili e permettono ai più temerari di accarezzarli e maneggiarli.
I turisti che solitamente giungono a Cocullo da tutto il mondo sono, mediamente, circa 20mila. Mentre fino a non molto tempo fa le serpi venivano poi “sacrificate” sul cortile antistante la chiesa oppure vendute, un diverso spirito civile vuole, oggi, che siano liberate dove sono state catturate.
Se non hai piani, quindi, trascorrere il 1 maggio in modo diverso potrebbe essere una bella idea, facendo riconciliare l’animo con la natura e scacciando, o anche solo mettendo momentaneamente da parte, i pregiudizi e le paure che troppo spesso ci impediscono di godere e di conoscere le meraviglie che ci circondano. Se sei scettico, fatti coraggio e fidati di noi: giocare con un cervone sarà un’esperienza che non dimenticherai! 😉