C’era una volta in…
«Cosa hai fatto tutto questo tempo?» chiede Fat Moe a Noodles che, malinconico, risponde «sono andato a letto presto». Cosa c’entra questa citazione del film capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America, con il viaggio in Turchia? In realtà assolutamente nulla, se non per il fatto che Mehmet, guida turistica locale, abbia risposto più o meno in questo modo alla domanda di una psicologa di Manila, curiosa di sapere cosa avessero fatto gli abitanti della Cappadocia durante l’epidemia di Covid-19. «Si sono coricati presto alla sera», è stata dunque la sua risposta (cito pure Marcel Proust e non faccio torto a nessuno, visto che il dialogo tra Fat Moe e Noodles, in realtà, è un omaggio proprio alla Recherche dell’autore francese). Ma nelle parole di Mehmet non c’è nulla di poetico. Nessun alone di mistero. Non trapelano enigmi, ma solo tanta drammatica realtà: andare a dormire per non sentire la fame.
Queste affermazioni mi hanno turbato, è inutile negarlo.
E così, per un po’, durante i trasferimenti in van da un sito archeologico ad un altro, ho riflettuto, autoconvincendomi di aver male interpretato la conversazione. In fin dei conti l’inglese lo parlo male. Quindi perché avrei dovuto capire un discorso tra una filippina e un turco? Così domando a Chiara – lei sì che è anglofona – e mi conferma quello che avevo capito.
Non c’è niente da fare: noi non andiamo in vacanza; andiamo alla ricerca di drammi esistenziali che si appiccicano alla nostra vita e non se ne vanno più via. Dico sempre: «Ma in vacanza al mare (o in montagna) come fanno tutti non possiamo andare? Perché ci dobbiamo puntualmente accollare i drammi umani-ambientali-climatici-archeologici-storico-religiosi-calcistici-musicali-artistici-astronomici dell’umanità intera… perché? Perché a noi i villaggi vacanze fanno così schifo?… ». La risposta è “nel vento”, per rimare in tema di citazioni.
Celie a parte, la Cappadocia, regione a cavallo tra l’Asia minore e la Mesopotamia (sì, proprio quella che abbiamo studiato sul sussidiario delle elementari; quella del Tigri, dell’Eufrate e di tutti i popoli che poi hanno provato a fondare una loro civiltà), è una terra misteriosa e immensa. L’orizzonte si sposta più in là ad ogni metro percorso e l’erosione sembra irridere i suoi abitanti: prima cede spazio ad immense colture di grano, delle quali, spesso, non si vede la fine, ma poi, bruscamente, le vallate erose riprendono il predominio cangiando di colore. Dal giallo ocra passano al rosso purpureo; dal colore della terra riarsa dal sole, al verde brillante di sparuti alberi di pino nero.
Tra polvere e bellezza
Siamo arrivati in Cappadocia con un volo interno da Istanbul, transitando dal secondo aeroporto più grande del mondo ad uno dei più piccoli, quello di Nevşehir, distante circa 30 chilometri da Göreme, città simbolo della Cappadocia – anzi, della Kappadokia come la chiamano da quelle parti – .
Se sei stato in Turchia e conosci i turchi, sai come guidano. E se conosci anche me, sai quanto io non ami la guida spericolata e quanto il mio linguaggio possa diventare “edulcorato” in caso di manovre compiute da autisti che però hanno poco dei piloti; ecco, fortunatamente sul mezzo che ci ha fatto da transfer non c’erano italiani, così come non c’erano sopra nessun altro mezzo che abbiamo utilizzato… altrimenti il nostro blog avrebbe certamente avuto un picco di curiosi, attirati dalle mie imprecazioni e scenate in una lingua sconosciuta. 🙂
Quando arriviamo – sani e salvi! – a Göreme, il sole sta ormai calando e i suoi raggi fanno capolino tra i camini delle fate, le enormi concrezioni di tufo, dalle forme coniche, che al loro interno custodiscono misere abitazioni scavate a mano e che rendono unico il paesaggio circostante. Infatti, dal 1985 sono patrimonio dell’UNESCO.
La luce fantastica è la prima grande emozione che ci regala questa terra. Sembra di vivere all’interno di un orton effect, cioè quella tecnica fotografica che rende morbidi e ovattati i panorami. Il cielo costantemente terso, senza una nuvola, i monoliti di tufo che svettano sopra improvvisate e spesso fatiscenti casupole o sopra improbabili hotel e l’arancione che riverbera ovunque sono la sintesi del nostro primo impatto con la città.
Göreme è piccola; più propriamente, infatti, con i suoi circa duemila abitanti, che aumentano in maniera esponenziale nelle stagioni turistiche, sarebbe meglio parlarne come di un paese, un paese tremendamente malconcio, che cerca di indossare il suo abito migliore e di imbellettarsi il giorno della festa.
La polvere delle strade non ancora asfaltate ti si appiccica addosso e sono inutili i tentativi di abbassare con l’acqua quella alzata dalle centinaia di auto che trasportano turisti a destra e a manca. L’olezzo dei cassonetti dei rifiuti è spesso nauseabondo. I taxi e le auto in genere minacciano costantemente la vita dei pedoni. I cumuli di immondizia fanno da quinta immeritata al meraviglioso paesaggio.
La dignità ed il calore dei vecchi abitanti, tuttavia, stemperano ogni magagna.
Il paese è in piena fase di sviluppo, anche se pare sia uno sviluppo abbastanza incontrollato, che porterà alla costruzione di centinaia di altri posti letto, con annessi servizi di ristorazione ed alloggio. Ce lo dice anche Fatma, la gentile ragazza che ci accoglie nell’hotel in cui alloggiamo, il Century Cave, e che ha una vera passione per l’Italia e la sua lingua, tanto che facciamo subito amicizia.
I due giorni successivi al nostro arrivo li utilizziamo per esplorare le bellezze archeologiche di quest’area ed è così che conosciamo Mehmet – proprio lui, il Robert De Niro turco -.
Sarebbe inutile e riduttivo elencare tutte le meraviglie in cui ci imbattiamo: rappresentano un mondo lontano anni luce dal nostro. Sono abitazioni scavate nel tufo, città sotterranee senza inizio e senza fine; chiese, templi, stalle, celle, piccionaie. Sono Storia che si sovrappone ad altra Storia. Sono conquiste, rotte commerciali, invasioni di popoli stranieri, religioni che hanno sostituito altre religioni, sono la vita di filosofi, santi, astronomi, protomedici, eremiti… in Cappadocia passarono in molti per giungere in Asia o per arrivare in Europa. La via della seta, aveva qui alcune delle sue tappe principali: i persiani la elessero a Satrapia; Alessandro Magno la conquistò; i romani ne fecero una loro provincia; i cristiani vi cercarono rifugio cominciando proprio da queste parti a diffondere il Vangelo.
Per visitare approfonditamente i siti ci vorrebbero svariati giorni, mesi forse. Ma per farlo in maniera comunque sufficiente per apprezzarli sono stati elaborati dalle numerose agenzie turistiche alcuni tour, distinti con tre colori, rosso, blu e verde, che in giorni diversi vi condurranno alla scoperta delle località più importanti (mi raccomando: spulcia bene le varie offerte perché i prezzi possono variare proponendo lo stesso itinerario).
Il cielo delle favole
Per noi la meraviglia, quella che stupisce e crea domande che non necessitano obbligatoriamente delle risposte, è arrivata il terzo giorno.
Ma andiamo con ordine.
Nei paesi islamici, il muezzin, dall’alto del minareto, ricorda ai fedeli che in cinque ore diverse del giorno devono pregare. Il primo invito alla preghiera viene fatto solitamente alle 4:30 del mattino, minuto più minuto meno. La sua voce, amplificata dagli altoparlanti, è uno squarcio irreparabile nel cuore della notte, soprattutto per chi ha il sonno leggero (leggasi il sottoscritto… certo non per Chiara). Il mio sonno già turbato subisce un ulteriore scossone circa una mezzora più tardi, quando sento il rumore di un fornello che brucia ripetutamente gas.
Intontito dal sonno, non realizzo subito cosa stia succedendo; penso agli operai, che, di buonora, hanno cominciato a lavorare nei cantieri circostanti. Ma il rumore del gas che brucia si fa sempre più intenso, tanto da svegliarmi definitivamente. Mi alzo, corro alla finestra e sgrano gli occhi: sopra la mia testa, centinaia di palloni variopinti si stanno lentamente alzando in cielo, accompagnati dalla timida luce dell’alba.
Butto giù dal letto anche Chiara, ci vestiamo velocemente. Reflex in mano e di corsa raggiungiamo il punto panoramico di Göreme (ai piedi dell’altura su cui si erge, si pagano 10 lire turche a testa, circa 30 centesimi di euro; in fin dei conti, il costo della vita in Turchia non è alto, se paragonato a quello europeo: il salario minimo si attesta sui 250 euro al mese, quello medio a circa 500).
Raggiunto il belvedere, ci troviamo nel bel mezzo di una favola.
I palloni danzano nel cielo disegnando impossibili traiettorie: alcuni, spinti dal vento, prendono quota, altri rimangono più bassi, qualcuno rasenta le nostre teste. È una danza corale e tutti sono ballerini sullo stesso palcoscenico, per poco più di un’ora di spettacolo.
Quando ormai la luce dell’alba evapora e il nuovo giorno prende il sopravvento spalancando la porta ai rumori della città, le mongolfiere, per questioni di sicurezza, cominciano ad atterrare, scomparendo lentamente dal cielo ormai vuoto. Una sparizione temporanea però, perché la loro danza riprende il giorno dopo, quello dopo ancora, e quello ancora dopo… e noi, finché ci è possibile, ogni mattina siamo lì, ad assistere increduli.
Non voglio esagerare: da fotografo naturalista ho la fortuna di ammirare da vicino gli animali selvatici; vivo la montagna; la roccia, l’acqua, le piante e i fiori. Ogni atomo di Natura mi riempie la mente; mi stritola il cuore e mi taglia il respiro. E sono felice di essere sempre lì, nel vano tentativo di imprigionare tutto con la mia reflex. Le mongolfiere non hanno la forza travolgente della Natura, ma hanno qualcosa di mistico, di poetico, di imponderabile: hanno la forza del volo nella leggerezza dell’aria.
In volo
Abbiamo avuto la fortuna di provarlo, il volo, e ti assicuro che ne è valsa la pena.
In occasione del compleanno di Chiara, ci siamo detti che avremmo anche potuto regalarci quest’avventura, certo non proprio economica, ma irripetibile.
Anche in questo caso, mi raccomando: per non farti spellare dalle agenzie che organizzano i tour in mongolfiera, ti consiglio di cercare con una certa costanza il volo che più ti interessa e monitorarne il costo poiché è legato a tanti fattori. Potresti trovare offerte molto diverse tra loro (noi ci siamo rivolti a Scoprireistanbul.com e, optando per il volo nella valle di Çat, meno inflazionata, siamo riusciti a risparmiare parecchio sul costo totale).
Svegliarsi alle 3.40 di notte, comunque, equivale a prendere una badilata sulla faccia che si infrange con potenza un po’ sul naso e un po’ sulla fronte. Svegliarsi alle 3.40 di notte, mentre si è in vacanza (perché in fin dei conti siamo comunque in vacanza) equivale a prenderne almeno due di queste badilate, ma dalla parte del taglio.
Come avrai capito, prerogativa dell’esperienza in mongolfiera è quella di svegliarti prestissimo. Il nostro appuntamento è fissato per le 4.15. Un pulmino ci accompagna nel luogo di ritrovo dove ci offrono l’immancabile çay e un simit, la ciambella di pane al sesamo tipica di queste parti. Intanto da lontano arrivano le litanie del muezzin e il nuovo giorno comincia ad abbigliarsi con i magnifici colori dell’aurora.
Per strada incrociamo decine di van con il cesto di vimini sul carrello, presagio che il luogo del decollo è ormai vicino.
Un campo di grano appena mietuto funge da rampa di lancio. Con gesti sapienti e ritmati, alcuni ragazzi srotolano gli enormi palloni; poi giganteschi ventilatori soffiano aria all’interno delle mongolfiere che, in questa fase, assomigliano tremendamente a balene spiaggiate. L’aria sospinta da ventilatori viene successivamente riscaldata da potenti bruciatori che, con rabbia, sputano fuoco e calore.
È solo quando la legge di Archimede torna ad imporsi che la magia si avvera: le mongolfiere si innalzano con tutta la loro eleganza e possono così decollare. Entriamo nei cesti e cominciamo a salire lentamente verso il cielo. Voliamo radenti sopra le case, che sono caverne, sopra gli orti e tra minuscoli vigneti. La lentezza del pallone desta il sonno di una lepre che tenta inutilmente di nascondersi. Alcune pernici, allertate, frullano via così veloci da perdersi nelle tinte brune della campagna. Le upupe, i nibbi bianchi e centinaia di piccioni ci accompagnano. D’un tratto la terra coltivata si arresta: il paesaggio diventa arido, impietoso, lunare. Poi, piano piano, si fa tutto più piccolo, fino a sfuggire alla nostra vista.
In lontananza, verso la silhouette del magnifico castello naturale di Uçhisar, riusciamo a scorgere centinaia di palloni che affollano l’orizzonte.
Dopo circa un’ora atterriamo, dolcemente, in un campo poco distante da quello da cui siamo decollati. Qui viene improvvisata una cerimonia per accontentare noi turisti occidentali con spumante (sono le 6.15 del mattino) e un attestato che certifica la nostra esperienza.
Un contadino ci offre anche un pezzo di cocomero (sono sempre le 6.15 o giù di lì) e insieme agli altri compagni di volo rivolgiamo gli auguri a Chiara per il suo compleanno. Un’anziana donna, dal capo e dal volto coperto per i princìpi della sua religione, addirittura la abbraccia calorosamente, rivolgendole, nella sua lingua, la buona fortuna. Le dona una carezza di nonna: un regalo immenso e prezioso.
Facciamo ancora qualche foto e riprendiamo la via di casa.
Il nostro stupore si è, ora, trasformato in ebbrezza. Annaspiamo nelle emozioni. Le riviviamo. Le accarezziamo e poi, quasi malinconicamente, ce le raccontiamo con un ritmo martellante che ci impedisce di pensare ad altro.
Tuz Gölü
Arriviamo in albergo che sono le 7.30: abusiamo dell’abbondate colazione per poi tornare a dormire qualche ora. Ma come ti ho detto, noi non possiamo rilassarci in vacanza. Noi dobbiamo soffrire. Così, dopo una dormita inutile e devastante, ci spariamo tre ore di macchina per raggiungere il lago Tuz Gölü.
Da una parte della strada, a destra, le colline, i canyon e le pianure coltivate a grano giocano a rincorrersi; dal finestrino è facile scorgere stormi di cicogne che, con impegno, cercano qualcosa da mangiare nei campi appena mietuti, ma montagne di plastica abbandonata violentano brutalmente una terra forse non troppo amichevole, rompendo l’incanto di una bellezza per noi nuova, non conosciuta. Dall’altra, a sinistra, corre invece una lunga e rigogliosa depressione del terreno: si sa, la Turchia è territorio di grandi movimenti tettonici e questa faglia, metro dopo metro, lo ricorda.
È proprio sulla sinistra che il lago appare all’improvviso: una distesa bianca di sale che riverbera i forti raggi del sole, ancora alto nel cielo. Sì, il lago Tuz Gölü è un lago salato. Ed è, per dimensioni, il secondo più grande dell’Anatolia, anche se il suo sale riesce a soddisfare il fabbisogno alimentare di tutti i turchi e non solo.
Individuato il punto di accesso, ci accorgiamo che in realtà il Tuz Gölü è una sorta di grande attrazione turistica: parcheggio per auto e pullman, grande negozio di souvenir in cui il sale viene venduto in tutte le sue forme (nei minimarket delle città turche, lo stesso sale, magari con una confezione diversa, viene venduto ad un quarto del prezzo).
Decidiamo comunque di fermarci per scattare qualche foto, ma la luce è dura e non rende giustizia alla bellezza che abbiamo davanti. Così, momentaneamente deluso, scartando tra un turista e l’altro, decidiamo di aspettare il tramonto.
Le attese sono sempre rivelatrici: bevendo l’ennesimo çay, cerchiamo di individuare un altro punto di ingresso al lago. Ne troviamo uno a pochi chilometri da noi, meno battuto.
Risaliamo frettolosamente in auto e procediamo verso la nuova entrata: si tratta di un viottolo tortuoso e sterrato che penetra all’interno della laguna seccata dal sole. Parcheggiamo. Acciuffiamo l’attrezzatura fotografica ed entriamo nelle viscere del lago: il sole ormai ha toccato l’orizzonte, i raggi sono diventati tenui e la morbida luce disegna forme e profili utilizzando tutte le sfumature del rosso. Ci spingiamo lentamente all’interno, lo scricchiolio del sale sotto i piedi si fa sempre più intenso; un fragile rivolo d’acqua sbarra il nostro cammino: ci lasciamo sorprendere dalla notte, siamo soli, nel cuore del continente, in un lago di sale, in una terra che non conosciamo ed è tutto bellissimo.
Torniamo in albergo a notte inoltrata: le valige già quasi pronte ci ricordano che tra un paio di giorni, un aereo ci riporterà a casa. Ecco, in questi casi non mi assale la tristezza del ritorno, ma la nostalgia cara ad Ulisse: il voler tornate per raccontare quello che si è vissuto.
È la consapevolezza che sarà impossibile farlo a generare tristezza e malinconia.